Nell'entrare nel salone del Grande Albergo, dov'era giunta quella mattina, Elina credeva che vi regnasse ancora la calma. E invece vi si ballava da un pezzo, animatamente. Simona Ariosto, gloriosa cantante in riposo, aveva già esaurito con un do di petto da campanello la sua esibizione e, seduta ora sotto un arco di porta, cercava di rendersi utile come meglio poteva alla direzione, che le offriva sei mesi all'anno di pensione gratuita. A pranzo, poco prima, lei aveva scambiato con Elina, da un tavolino all'altro, le solite vaghe chiacchiere che sono le prime d'una amicizia d'albergo. Svedese? Giunta a Torino da Östersund? E perché di passaggio? Parigi, in aprile, era troppo fredda ancora... che andava a fare a Parigi? Meglio Torino.Adesso, rivedendo nel salone la sua vicina di tavola e accorgendosi che, volte le spalle, stava per uscirne non appena entrata, l'aveva salutata con un sorriso e poi chiamate a sé con un cenno.
"Non vi piace danzare?"
Elina non mentì. Avrebbe potuto rispondere che, stanca del viaggio, preferiva ritirarsi per tempo quella sera. Ma ebbe timore d'arrossire e di denunciare così il rammarico della sua forzata rinuncia. Rispose la verità: che non aveva conoscenze in albergo. Ma nascose un'altra verità, quella che nessuna donna confessa neanche a sé stessa, nel vedersi esclusa da una preferenza accordata ad altre: che veniva da poco da una terribile relazione e di ritenersi assai sciupata fisicamente...
Ma già l'occhio della cantante aveva fermato a distanza qualcuno, e l'attraeva, magnetico, nel'orbita della sua voluminosa persona.
"La signorina Elina Strömberg... Monsieur Rinaldi, il nostro simpaticissimo addetto..."
Il giovinetto s'inchinò, invitandola. Era alto, bello, elegante, inguantato nella sua marsina come un antico, perfetto figurino. Addetto a cosa? La signora Ariosto aveva omesso di dirlo, o forse lei non aveva sentito bene; ma certo l'elegenza del vestire e la correttezza dei modi denunciavano in lui il gentiluomo. E come ballava bene!
Mentre la musica strappava altre coppie qua e là per poi riunirle in uno stretto cerchio come fa con le foglie il vento d'autunno, Elina, fra le sue braccia, si sentiva lieve come una boccata di fumo in un'aria tranquilla. Ondeggiava. Svaniva un poco. Si ricomponeva in spire sinuose. E saliva, saliva...
Da quanto tempo non ballava più? Da un anno e mezzo certamente. Ne avrebbe compiuti trenta entro pochi giorni. Dopo che ad Oslo, ad un ricevimento, s'era rifiuata d'accettare un invito al ballo, Elina aveva disertato ogni attività mondana e s'era chiusa nella tetra malinconia di quei suoi viaggi solitari attraverso l'Europa, trascinando da una città all'altra il vuoto della sua sterile vita e il freddo del suo cuore senza un palpito solo.
Finito quel primo giro, Elina avrebbe voluto rivedere la cantante, per ringraziarla e salutarla prima di risalire; ma, vedendola circondata da altri, sicuramente ammiratori ed illustri personaggi, non osò avvicinarsi. E poiché intanto quel bel Rinaldi era ancora lì fermo ad aggiustarsi la gardenia all'occhiello, come se desideroso di fare un altro giro con lei ed incerto se chiederlo o no, Elina si fece ardita per lui e s'invitò da sé. Sapeva di ballare anche lei molto bene. Non voleva illudersi. Non voleva attribuirlo ad altro.
Ma ciò le dava già una sicurezza.
Al quarto giro, poiché continuavano sempre a ballare insieme, lei gli chiese, sorridendo, in perfetto italiano:
"Faremo dunque coppia fissa stasera?"
Anch'egli le sorrise, pur senza risponderle; e lei ne fu così felice che non esitò ad essere anche un po' maligna... vedeva lì, seduta accanto alla madre, una fanciulla bellissima, che nessuno ancora invitava, e fece di tutto per passarle accanto, per attrarne lo sguardo, per esserne veduta e invidiata fra le braccia del suo bel cavaliere...
Verso l'una di notte, finito il ballo e congedatasi da lui, Elina uscì a respirare all'aperto. Aveva bisogno di aria, di cielo, di stelle. Ve ne erano tante lassù: tutta una limatura, infinite. E la notte era tiepida. E vampe d'aromi giungevano dai giardini circostanti, quasi stordendola.
Non passeggiò. Era stanca e le decolté avevano messo a dura prova i suoi piedi. Sedette su una panchina posta sotto un tiglio, in uno dei viali dei due grandi giardini che offriva l'albergo. Era pressoché deserto a quell'ora, la tranquillità regnava sovrana. Elina si strinse un poco nella giacca, rabbrividendo un po' per una brezza che s'era levata leggera. Intorno era buio, solamente qualche lampione posto qua e là offriva la sua luce come punto di riferimento.
Perché non aveva chiesto al Rinaldi di uscire a prendere una boccata d'aria con lei? Vedeva di tanto in tanto altre coppie passarle accanto, sparire; e si rammaricava adesso di non essere più accompagnata. Certo, non poteva pretendere che lui le facesse quella proposta; ma forse il desiderio in lui c'era, poiché nell'aiutarla a indossare la giacca, s'era ancora indugiato lì accanto, come aveva fatto dopo il primo giro, in un'attesa che non chiedeva altro che di essere compresa ed esaudita. Avrebbe dovuto farsi lei, anche questa volta, un po' ardita. Perché non l'aveva fatto? Colpa sua dunque; o meglio, colpa di un'educazione troppo rigida ed ormai sorpassata, che l'obbligava a quei continui ritegni che allontavano le persone, anziché incoraggiarle.
Non voleva illudersi, con questo, che l'addetto Rinaldi nutrisse già qualche interesse per lei. Ma l'assiduità di quella sera poteva anche essere il segno d'una nascente simpatia. Forse, se l'avesse accompagnata lì fuori, egli non avrebbe mancato di manifestarle questo suo sentimento. Forse anche, fatto ardito dall'oscurità, le avrebbe detto cose non mai udite da lei; avrebbe steso un braccio; avrebbe cercato di carpirle una mano...
D'un tratto sussultò. Le ali di una farfalla notturna le avevano sfiorato una guancia, ridestandola da quel torpore di fantasia nella quale si era racchiusa. E si alzò allora di scatto per rientrare in albergo, quasi per cercarvi rifugio.
Rientrata nella sua stanza, per prima cosa si disfò dei tacchi gettandoli con noncuranza sul pavimento, quasi a volerli punire per la stanchezza accumulata nella serata. Con molta più cura si tolse l'abito, lungo e di un blu vellutato, dimostrando verso di esso una sorta di riverenza. Dopo un rapido strucco e una doccia rigenerante, si lasciò avvolgere dalla sua camicia da notte e si gettò nel letto, speranzosa di essere accolta presto alla reggia di Morfeo. Tuttavia, per lunghe ore non riuscì a chiudere occhio. In una ridda d'impressioni, di pensieri, di propositi nuovi, si faceva alcune domande alle quali non sapeva rispondere ancora. Perché, per esempio, quel desiderio di non ripartire più l'indomani mattina, se aveva già fissata la stanza a Parigi? Forse per le parole della Ariosto, che l'aveva avvertita che per Parigi non era ancora la buona stagione?
L'indomani, nella tarda mattinata, scesa nel vestibolo dell'albergo, Elina si avvide nello scorgere che molti uscivano dalla sala da pranzo e si sedevano ai tavoli disposti lì intorno per sorbirvi il caffè di dopo colazione. Ma lei non s'era addormentata che all'alba. Aveva dormito un sonno riparatore. E si sentiva fresca adesso, leggera, felice. I sentimenti della sera innanzi le si erano ancorati nel cuore con tutte le catene della passione.
La signora Ariosto la salutò dalla strada. Nella potente macchina d'una famiglia torinese andava in gita. Le gridò, agitando le braccia:
"Un saluto, signorina Strömberg! E buon viaggio. Spero abbia gradito il servizio!"
"Come?" il rumore del mezzo le impedì di sentire tutta la frase.
"Devo partire, mia cara, mi spiace. Chissà che non ci si incroci di nuovo, a Parigi... e la prossima volta..."
Le altre parole si perdettero, sovrastate dal fragore della macchina che si slancioava a divorare la strada. Nella nube azzurrognola dello scappamento aperto si videro però ancore le due braccia poderose della cantante agitarsi al saluto.
Elina non ebbe un solo attimo d'esitazione. Andata in segreteria, chiese di pagare il suo conto, avvertendo che sarebbe partita per Parigi nel pomeriggio. Era ormai più che ferma nel proposito di rincorrerla, dovunque, la sua nuova felicità, di non lasciarsela più sfuggire di mano.
"Ci sarebbe poi quest'altro piccolo conto da regolare..." le disse il segretario, mentre lei stava per uscire.
"Quale conto?"
"Il signor Rinaldi, il nostro addetto al ballo, ha finito ieri sera i suoi impegni, sicché..."
Elina si sentì agghiacciare.
"La signorina forse non sapeva?"
"Oh, sì... sapevo..." balbettò lei, mal riuscendo a nascondere il suo disappunto. "Sapevo benissimo... ma ero incerta..."
"Sul modo come regolarsi?"
"Ecco. Volevo anzi chiederne stamane alla signora Ariosto..."
"Di solito si dà immediatamente una mancia. Ma c'è anche una tariffa..."
E il segretario guardò nel suo taccuino.
"Cinque giri, non è vero?"
Elina sentì che le mancava il fiato.
"Cinque, sì, credo..." mormorò, cercando di dare alle sue parole un tono distratto e ridandosi intanto un po' di lucidalabbra.
"Rinaldi balla molto bene..." sorrise il segretario. "Ma certo sarebbe una bella cosa per lui, se potesse trovare ogni sera delle clienti così belle e affezionate alla danza..."
Elina tagliò corto.
"Quanto per ogni giro?"
"Dai venti ai cinquanta, di solito..."
Pagò. Ma, uscita che fu dalla segreteria, più che della rovina in cui era stato seppellito il suo sogno, ciò di cui più si dolse con se stessa fu d'aver messo a nudo un sentimento di cui era tanto gelosa, di aver fatto capire il suo inganno, di essersi esposta ancora una volta allo scherno altrui.
Ne arrossiva di collera, adesso.Se ne rimproverava come d'una colpa. Di avere pagato il prezzo della sua estasi coreografica non le rincresceva affatto. Ma non si rassegnava all'idea di essersi così esposta all'altrui commiserazione.
S'avviò per uscire. Ma dove andava adesso? Non sapeva più. Si arrestò sulla soglia. La mattinata era luminosa di sole, di chiarità, di letizia. Mandando bagliori dalla sua biancheggiante carrozzeria, una grossa auto di lusso s'avviava lungo la strada, lasciandosi dietro una piccola colonna di fumo. Racchette sulla spalla,
una giovane coppia s'avviava verso il tennis; un'altra rientrava parlandosi sommessamente, gli occhi negli occhi, dicendosi senza dubbio parole d'affetto...
Sempre lì immobile, non sapendo più che pensare, che fare, Elina non sentiva che collera. Si consumava in quella segreta sua rabbia come una candela accesa in una corrente d'aria. E solo i suoi occhi continuavano spietatamente a vedere. Lì dirimpetto, sotto quel tiglio, lei si era concessa una fantasia inebriante che l'aveva distaccata dalla realtà. Ricordava tutto. Il profumo della notte tiepida, l'incanto dell'immenso giardino tranquillo, le ali della farfalla... e un solo rammarico non aveva più: quello di non aver chiesto a Rinaldi d'accompagnarla lì fuori. Almeno quello se lo era risparmiato, considerando tutto. Chissà? Su un taccuino d'appunti, annotato da un segretario di albergo per esserle ricordato prima che ripartisse, il primo bacio della sua nuova vita sarebbe stato forse segnato anch'esso ad un prezzo d'affezione e saldato in calce con una marca da bollo.
Baci baci.
Michaela
Nessun commento:
Posta un commento